IN ATTESA DEL LIETO FINE

Postato da Paolo Camerin |14 Dic 14 | 0 commenti

Prendo in prestito uno scritto di Sebastiano Zanolli  che ho avuto la fortuna di incontrare. Ho “scoperto” Sebastiano grazie ad un carissimo amico che mi girò il link dove ho potuto leggere questa “lettera” che contiene una frase che per me ha significato molto. Alla prima lettura non ci ho fatto molto caso, successivamente incontrai ad una cena Sebastiano gli spiegai come lo avevo in precedenza conosciuto e, quando sentii il racconto di quanto descritto in questa lettera dalla voce di Sebastiano per me fu l’inizio di una nuova consapevolezza. Buona Lettura


“Luglio 1991, caldo soffocante, dintorni di Salonicco, Grecia. Ho con me una pilotina piena di campioni di tessuto, vesto il mio completo di poliestere/viscosa ed una improbabile cravatta a fiori, rotolata fuori dai ruggenti anni ottanta. Mi sta di fronte un imprenditore locale, molto ma molto più bravo a comprare di quanto io non sia bravo a vendere.
Inizio. Approccio, presentazione del prodotto, superamento obiezioni, chiusura. Seguo come dal manuale di Mario Silvano tutte le tappe che un manager delle vendite deve percorrere per finalizzare un affare. Ma niente, Jorgo è un osso duro. Non chiudo nulla. Riprendo daccapo. Caratteristiche, vantaggi, tecnica del sandwich, ricalco, guida. Tutta la programmazione neurolinguistica sulla punta delle dita. Ma in Grecia discettavano di filosofia e commerciavano quando i miei avi barattavano radici e pigne. Non c’è storia. Lui comprerà solo se mi calerò i pantaloni sul prezzo. Ormai è chiaro. Continuo a perdere terreno. Sono alla frutta e quindi gioco una carta che mi sembra ottima. Telefono al titolare, al mio datore di lavoro, nonché direttore generale. Il dispensatore di autorità, l’ente supremo. Lui può. Lui ha tutte le possibilità di risolvere il mio problema e soprattutto lui sa. Io credo che lui sappia. Lui è sopra e lui sa e può. Non esiste il cellulare nel 1991, non che io almeno sappia. Quindi cerco un fisso e chiamo. Spiego. Dico. Illustro al capo la situazione. Ecco, mi basta la soluzione. Mi aspetto una taumaturgica sentenza. Ecco è qui l’errore. Il grande errore. La mia crassa ignoranza di giovane manager se ne esce con spudorata semplicità. Ho pensato che chi sta sopra sappia. Ho creduto che la mia posizione possa permettere spostamenti responsabilità. Ho immaginato che ci sia sempre un aziendale lieto fine grazie ad un Deus Ex Macchina , come nei film di Frank Capra. E nessuna di queste assunzione è vera. Ecco il testo della risposta. Lo ricordo a memoria. “Senti Sebastiano, mi sembra che tu non sappia come fare per chiudere questo affare. Ora, visto che anche io non so come fare e inoltre non voglio nemmeno sapere come fare non ho nulla da dirti. Sappi però che questa azienda si può permettere solo una persona che non sa come fare ed ora, per quanto mi guardi intorno vedo che quell’unica persona sono io. Quindi se tu non sai come fare ed io non so come fare quello che è di troppo sei tu e in questo caso ti prego di toglierti di torno”. Avevo sbagliato tutto. Avevo sbagliato punto di vista e anche principio. Il capo ero io. La funzione era mia. Il Deus Ex Machina se c’era, dovevo essere io. Nessun altro. Ecco, ho imparato che in cima, anche in cima ad un mucchio di sassi, si è da soli, e nessuno ti toglierà le castagne dal fuoco e nemmeno deve togliertele. Succede che per lo stesso fatto di avere accettato un lavoro hai accettato la responsabilità. Sono due facce ma sono la stessa moneta. L’unica consolazione, come dice Donald Trump, è che almeno in cima non si sta stretti. Speriamo bene.”
Sebastiano


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